Finale di Champions League: il Chelsea batte il Manchester City


Niente di tutto questo è costato poco. Quanto sia costato tutto ciò non è possibile fare una cifra precisa, ma è costato non molto lontano un paio di miliardi di dollari, perlomeno, trasformare una squadra di calcio che era sinonimo di delusione in un luccicante pubblicità per la modernità e la maestria dei suoi sostenitori.

Ha funzionato. Sotto Pep Guardiola, il City è diventato la forza dominante nel calcio inglese. Per tre degli ultimi cinque anni, probabilmente, secondo la maggior parte dei parametri, è stata la migliore squadra d’Europa, qualunque cosa significhi, davvero: la più completa e la più coerente, quella con il tetto più alto.

È una costanza che ha sempre eluso il Chelsea, sempre troppo turbolento, troppo impaziente, troppo a suo agio con il cambiamento. Ed è stato ottenuto traducendo il controllo che definisce il club nel suo stile di gioco. Guardiola vuole non solo avere il possesso della palla, ma avere la proprietà dello spazio stesso: dettare dove vanno i passaggi e dove vanno i giocatori.

Tutto, ogni pezzo meticolosamente selezionato del puzzle, era stato fatto pensando a questo momento. La Champions League rappresenta la massima realizzazione non solo della visione di Guardiola, ma di quella del City. È una giustificazione per tutto questo investimento, una rivendicazione per tutte quelle idee ed è una ricompensa per aver fatto tutte queste cose nel modo giusto.

C’è solo un difetto. Il successo non è una formula. Non questo tipo di successo, comunque, il successo che si basa su un allineamento delle stelle e lo sfregamento del verde e le minuzie di innumerevoli piccoli momenti. Questa è la natura innegabile e indomabile dello sport: che, alla fine, c’è sempre qualcosa di cui non puoi spiegare, qualcosa che non puoi controllare. Che, a volte, le cose non vanno come dovrebbero.

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